Stipsi

Stipsi

Secondo statistiche internazionali il 40% della popolazione mondiale soffre o ha sofferto di stipsi almeno una volta nella vita. Si tratta quindi di un disturbo relativamente frequente, che può compromettere la condizione di benessere e di efficienza psico-fisica dell’individuo sano. Ovviamente prima di qualsiasi ipotesi di trattamento nutrizionale sarà indispensabile una diagnosi generale e gastro-enterologica per escludere patologie organiche o relative all’apparato digerente, in grado di provocare un rallentamento del transito intestinale. La stipsi, infatti, può essere secondaria a numerose condizioni morbose di cui può rappresentare solo uno dei sintomi. Nei bambini, per esempio, una causa frequente di stipsi è l’intolleranza alimentare misconosciuta, che va identificata e curata.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, essa è primitiva o idiopatica, come conseguenza di un’alterazione della propulsione del bolo fecale e/o dell’evacuazione dello stesso. I disturbi della progressione possono essere correlati a una ridotta massa fecale, per esempio dopo diete incongrue, o per alterazioni funzionali spesso riconducibili ad una ipofunzione epato-biliare. I sintomi possono riguardare solo l’addome, con modesti dolori locali o diffusi, che possono però riacutizzarsi fino a diventare una colica, o di carattere generale come cefalea, cardiopalmo, insonnia, alitosi. Possono comparire difficoltà digestive e una diminuzione dell’appetito. Sono frequenti le dermatosi come orticaria, eczema e acne, causate presumibilmente da autointossicazione dovuta all’assorbimento di sostanze che dovevano essere eliminate, ma che invece permangono troppo a lungo nell’intestino. Le persone che soffrono di stipsi possono inoltre lamentare flatulenze, a causa dell’aria non eliminata. Non esiste un criterio univoco relativo alla frequenza fisiologica dello svuotamento intestinale. Per alcuni esso sarà quotidiano e mattutino, per altri interverrà in ore diverse e persino a giorni alterni. Il denominatore comune sarà comunque il senso di liberazione, di pulizia intestinale e di benessere. Alla luce di queste osservazioni, si dovrà considerare stitichezza anche quella di individui che hanno un ritmo quotidiano, ma insufficiente o incompleto.

Dal punto di vista bionutrizionale è possibile distinguere per grandi linee una stipsi “atonica” e una “ipertonica”, che richiederanno differenti linee guida alimentari. Quella “atonica”, statisticamente più frequente, si caratterizza per un rallentamento dei processi digestivi con dilatazione delle anse intestinali e conseguente gonfiore addominale. La sensazione di fastidio sarà legata alla fermentazione e al meteorismo, con possibile flatulenza e sollievo slacciando la cintura. In questi casi bisognerà stimolare il fegato, allo scopo di aumentare la produzione e il deflusso della bile, attraverso l’impiego di cibi ripassati, trifolati e fritti in tutte le modalità possibili. Queste modalità di cottura comporteranno una evaporazione dei liquidi presenti negli alimenti, annullando o riducendo il loro potere fermentativo. Saranno escluse la banana e alcune verdure crude a foglia come la lattuga, le verdure lesse e soprattutto quelle consumate in associazione a derivati del latte.

Sempre nella stipsi “atonica”, si farà un uso limitato di minestre e legumi, rigorosamente associati a vegetali antimeteorici come finocchio, carota e sedano e, compatibilmente con le caratteristiche individuali del singolo paziente, si proporranno alimenti dotati di intrinseco potere lassativo. Fra questi ultimi, vanno segnalati: a) la melanzana, in particolare quella ai ferri, trifolata e panata, riservando ai bambini che manifestino avversione verso i vegetali quella a crocchette o a crema; b) i funghi in tutte le loro possibili modalità di cottura; c) i peperoni, soprattutto crudo nelle insalate, arrosto, soffritti in padella (compresi i friggitelli); d) il sedano in pinzimonio o aggiunto nelle insalate e nelle cotture di altri alimenti, in particolare dei legumi; e) sedano rapa; f) il topinambur crudo, fritto o trifolato, in grado di stimolare efficacemente anche la funzione epato-biliare; g) la verza cruda, a involtini o solo sbollentata per pochi minuti e condita con olio e limone, in quanto se sottoposta a cottura prolungata diventerebbe astringente; h) la frutta, in particolare le albicocche, i fichi, i kiwi, la mela cruda, l’uva, le prugne e le susine, la pera cruda molto matura. Rimedi lassativi saranno la spremuta di uva al mattino a digiuno o l’acqua con limone e miele.

Nella stipsi “ipertonica”, più frequente nei soggetti “epatici” o adrenergici, sarà scarso o assente il gonfiore addominale, in quanto il transito intestinale rallenterà per contrattura e spasmo della muscolatura liscia viscerale. Oltre all’impiego degli alimenti lassativi, sarà necessario soprattutto agire in senso miorilassante con tutti i cibi ricchi di potassio, come la banana, i fagiolini, gli agretti, la zucchina, etc. Si eviteranno sostanze adrenergiche come tè o caffè, ma anche alimenti troppo ricchi di iodio come il pesce.

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Steatosi epatica

Steatosi epatica

La steatosi epatica, comunemente definita “fegato grasso”, è una patologia legata all’accumulo intracellulare di trigliceridi a livello del tessuto epatico, in una percentuale superiore alla quota fisiologica che in media non supera il 5% del peso complessivo dell’organo. Questa condizione si può verificare quando l’epatocita accumula trigliceridi in conseguenza di: a) aumentata captazione di acidi grassi come accade in corso di diabete o in presenza di sindrome metabolica; b) un aumento della sintesi endogena di acidi grassi come si verifica in corso di insulino-resistenza, di abuso di bevande alcoliche o di un’alimentazione fortemente sbilanciata a vantaggio degli zuccheri e degli altri carboidrati, con conseguente carenza di proteine e grassi; c) per una ridotta eliminazione dei lipidi da parte del fegato come può avvenire in corso di malnutrizione o di diete fortemente ipocaloriche, condizioni che inducono l’organo ad accumulare i nutrienti carenti.

In una percentuale variabile dall’8 al 20%, questa patologia può evolvere verso processi infiammatori e/o necrotici con eventuale fibrosi progressiva dell’organo. Le due situazioni vanno però distinte, poiché la steatosi semplice è reversibile con la correzione dei fattori che l’hanno indotta, in particolare quelli alimentari, mentre quella infiammatoria può progredire verso la cirrosi in circa il 10% dei pazienti. Anche in questi casi, comunque, un’opportuna programmazione nutrizionale potrà rallentarne molto la progressione.

Sempre più frequente anche in età giovanile, la steatosi epatica può essere del tutto asintomatica o manifestarsi con un vago senso di fastidio o pesantezza al di sotto dell’arcata costale destra. Molto spesso il riscontro è casuale, in quanto una semplice palpazione potrà evidenziare il margine epatico debordante oltre l’arcata costale. In questi casi un’ecografia, esame non invasivo e immediato, mostrerà un fegato “brillante” a causa delle cellule infarcite da accumuli lipidici. Non esiste una terapia specifica, avendo la steatosi un’origine multifattoriale. In particolare, le misure da adottare saranno prima di tutto l’eliminazione dell’alcol, una corretta alimentazione integrata con attività fisica e, nel caso di diabete o altre patologie concomitanti, bisognerà intervenire opportunamente con cure adeguate.

Normalmente si ritiene che in presenza di un fegato “grasso” sia indispensabile escludere drasticamente i lipidi, dimenticando però che il fegato è anche un organo di riserva. Se i grassi vengono esclusi dalla dieta, questa carenza verrà interpretata dall’organo come un motivo in più per stoccarli al suo interno. Come non pensare all’alcolista cronico, magro e denutrito, ma con un fegato fortemente steatosico che si avvia verso la destrutturazione della cirrosi?

Le linee guida bionutrizionali esposte in questo paragrafo riguarderanno i casi di steatosi non complicate, in particolare quelle presenti in soggetti diabetici o con insulino-resistenza periferica, con conseguenti valori glicemici stabilmente al di sopra della norma. In presenza di un eccesso di zuccheri circolanti, la cellula epatica li trasformerà in trigliceridi, accumulandoli poi nel tessuto adiposo, ma anche all’interno di se stessa. Nella maggior parte di questi individui sarà possibile evidenziare uno stato di ipofunzione epatobiliare, che si manifesterà con pesantezza e gonfiore gastrico, a volte reflusso esofageo, digestione lenta e laboriosa, meteorismo e fermentazione intestinale, alternanza di stipsi o diarrea, a volte cefalea di origine epato-digestiva, etc.

Il primo accorgimento nutrizionale riguarderà la gestione oculata del carico glicemico dei pasti, con una quantità non eccessiva di carboidrati, frutta, vino e dolci bilanciata dalla presenza delle proteine della carne, dell’uovo e del pesce, escludendo i derivati del latte, in particolare i formaggi. Questi ultimi avranno molteplici controindicazioni nella steatosi: a) impegno epatobiliare, già rallentato dalla patologia, con il possibilità di sabbia e calcoli della colecisti; b) rischio di aumento del colesterolo ematico; c) rallentamento del transito intestinale; d) aumento della coagulabilità ematica.

Alla regolazione degli zuccheri dovrà corrispondere una programmazione di pasti che esercitino uno stimolo fisiologico ma costante del fegato, attraverso l’utilizzo di alimenti proposti nella modalità ripassata, trifolata, fritta, in pastella, panata o fritta dorata, con una intensità valutata in base alla tollerabilità individuale. Se ben prescritti, dopo il consumo di questi alimenti, il paziente riferirà un miglioramento netto di tutti i suoi sintomi digestivi, espressione di una migliore attività del fegato. Poiché ogni attività biochimica richiede la presenza dell’acqua, agli alimenti stimolanti, bisognerà associare sempre una quota di liquidi sotto forma di acqua di vegetazione presente nelle verdure e nella frutta cruda. Sarà indicato un impiego frequente del peperoncino e di altre spezie e non dovrà mancare lo stimolo dell’acido citrico del limone.

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Obesità “surrenalica” o adrenergica

Obesità “surrenalica” o adrenergica

Tra le varie categorie costituzionali, esistono soggetti le cui caratteristiche neuroendocrine si esprimono con una marcata tendenza anabolizzante. L’incremento ponderale si localizza nelle regioni superiori del corpo, in particolare a livello delle spalle, delle braccia, del collo e del torace, il cui diametro antero-posteriore ha un’estensione superiore alla media. Nei casi più eclatanti risaltano le gambe e le cosce sottili, quasi dei trampoli che sorreggono un tronco massiccio, con le curve glutee ridotte o assenti per perdita della fisiologica lordosi lombare e spostamento in avanti del baricentro del bacino, tanto da configurare la classica forma a “pera rovesciata”. La loro cute è spessa, calda e rosea, con facili arrossamenti e congestioni al viso, il sottocutaneo è compatto e sodo, quasi fibroso nelle forme più marcate. Il tono muscolare è stabilmente elevato, senza tendenza agli spasmi e alle contratture, tipica nei soggetti con obesità “epatica” o ginoide. In questo caso si tratta di individui intraprendenti, dominanti, con tendenza all’ipertensione arteriosa e alle patologie cardiovascolari. Di solito esprimono un elevato tono adrenergico, con evidenza di ipercortisolemia nelle analisi ematochimiche, che si potrà complicare con squilibri glicemici e diabete, tanto da configurare il quadro classico della sindrome metabolica.

Per la citata tendenza anabolizzante è particolarmente difficile in questi soggetti troppo “strutturati” attivare un catabolismo in grado di ridurre peso e misure nella zona superiore del corpo. Inoltre, se è vero che l’incremento ponderale è sempre conseguenza di un rallentamento organico, e spesso anche psichico, questo caso fa eccezione, in quanto si tratta di individui attivi, con funzione tiroidea e neurologica normale, o ai limiti alti della norma. Pertanto, la stimolazione del catabolismo organico dovrà essere molto mirata, evitando quelle soluzioni nutrizionali che potrebbero incrementare ulteriormente la funzione surrenalica anabolizzante.

In questo tipo di obesità sarà controproducente l’impiego di sostanze adrenergiche, come caffeina o teobromina, che potenzierebbero gli effetti del cortisolo, già elevati in questi individui. Per la stessa ragione, sarà necessario ridurre o escludere alimenti ricchi di solanina biodisponibile, come melanzana o peperoni, o di clorofilla, presente nelle parti superficiali ed esterne (perciò più scure) di numerose verdure a foglia. Fra le varie modalità di stimolo generalizzato, si potrà sfruttare quello del ferro, a condizione di escludere le carni rosse, o il kiwi, troppo ricche, le prime di basi azotate, il secondo di vitamina C, preferendo tutte le verdure appartenenti alla famiglia delle “Cicorie”, per il loro potere di drenaggio tessutale e di facilitazione della funzione renale, sempre a rischio in questo tipo di pazienti. Non sarà utile, invece, lo stimolo metabolico della vitamina C, per la sua azione eccitante neurologica e “strutturante”, a livello dei biochimismi tessutali. Sarà comunque possibile un impiego moderato dell’acido citrico del limone, del pompelmo o dei mandarini, ad esclusione dell’arancia, ricca anche di sali e di zuccheri.

Inefficace e quasi sempre dannosa l’attività fisica, in quanto il lavoro muscolare intenso esalterebbe ulteriormente l’anabolismo di questi soggetti, prova ne sia l’impiego illegale di sostanze steroidee nelle palestre per velocizzare l’aumento e la compattezza delle strutture corporee. Per la stessa ragione saranno controindicate in assoluto le diete iperproteiche, in quanto, oltre a non sortire l’effetto desiderato, potrebbero essere responsabili di gravi complicazioni renali e cardiovascolari.

Tenendo conto delle precedenti controindicazioni, l’impostazione nutrizionale nei soggetti con iperfunzione surrenalica dovrà perseguire le seguenti finalità: a) contrastare l’anabolismo costituzionale con alimenti e associazioni “destrutturanti”; b) favorire costantemente la fluidificazione dei liquidi organici e del tessuto ematico; c) agevolare e proteggere la funzione emuntoriale del rene, a rischio per la frequente coesistenza di una pressione arteriosa diastolica ai limiti alti della norma; c) prestare attenzione all’indice glicemico complessivo dei pasti proposti, in quanto oscillazioni non fisiologiche della secrezione di insulina potrebbero indirettamente provocare ulteriore innalzamento degli ormoni surrenalici; d) bilanciare l’iperandrogenismo con un impiego razionale di fitoestrogeni, differenziando la frequenza degli stessi nel sesso maschile o in quello femminile, in età fertile, o in menopausa.

Un’impegnativa diagnostica differenziale riguarderà la distinzione di questo tipo di obesità da quella “pancreatica” caratterizzata da alterazioni dell’equilibrio glicemico. E’ frequente, infatti, la coesistenza di squilibri endocrino-metabolici che interessano simultaneamente il pancreas e il surrene, con alterazioni ematochimiche miste. In questi casi bisognerà tener conto delle attenzioni nutrizionali utili per questa tipologia di obesità, ma senza trascurare quelle descritte nel capitolo dell’obesità “pancreatica”.

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Osteoporosi e consolidamento delle fratture ossee

Osteoporosi e consolidamento delle fratture ossee

L’organismo è un sistema complesso, rispetto al quale non è possibile ragionare in termini lineari di causa ed effetto. Nonostante i progressi della scienza moderna siamo ancora lontani dall’avere una chiara visione d’insieme. Per esempio, contrariamente al senso comune, il sistema osseo non è statico, ma è formato da una matrice organica proteica impregnata di sali minerali, continuamente e dinamicamente rimodellata da diverse cellule specializzate come osteoblasti, osteoclasti e osteociti.

Quando si parla di osteoporosi, pertanto, non ci si può riferire semplicemente alla mancanza di calcio, ma piuttosto ad una difficoltà dell’organismo nel trattenere e fissare quest’ultimo a livello osseo, processo coordinato da meccanismi fisiopatologici complessi, secondo un sinergismo che implica soprattutto l’attività di fegato, reni, paratiroidi e tiroide.

Molti sono i minerali che favoriscono la buona salute delle ossa, per cui un’alimentazione che varia quotidianamente sarà la prima regola per permettere un giusto turnover di vitamine, sali minerali e nutrienti utili per il funzionamento di organi e apparati. Va aggiunto che l’azione dei minerali a livello organico è regolata da equilibri molto delicati, tanto da generare sinergismi o antagonismi rispetto all’assorbimento e alla deposizione del calcio. Questo rende sconsigliabile l’assunzione di integratori, a meno che non si abbiano precisi dati ematochimici che ne attestino la reale carenza.

Fra le cause di demineralizzazione ossea vanno segnalate prima di tutto la riduzione dell’attività fisica e dell’esposizione al sole da parte della maggior parte degli individui dediti ad attività sedentarie in ambienti confinati, ma anche un’alimentazione industrializzata e troppo ripetitiva che rischia di provocare eccessi da un lato e carenze di nutrienti necessari, dall’altro. Per esempio, un’eccessiva riduzione dei lipidi comporterà la mancanza di quei substrati biochimici indispensabili per la sintesi delle vitamine liposolubili D, E, K e A, a vario titolo implicate anche nella salute dell’apparato scheletrico. Va sottolineato che consumare latte, yogurt e formaggi privati della componente lipidica naturale ridurrà l’assorbimento del calcio e aumenterà l’indice glicemico complessivo del pasto. Oggi si ingrassa per un eccesso di carboidrati e di zuccheri, non perché si consumino troppi lipidi vegetali o animali. Prova ne sia il fatto che negli ultimi decenni si è riscontrato in tutto il mondo un incremento di obesità e osteoporosi nonostante la demonizzazione dei grassi e la diffusione dei cibi a “basso contenuto lipidico”.

Da segnalare che la carenza di acido cloridrico a livello gastrico può disturbare l’assorbimento del calcio. Tale carenza viene spesso provocata dall’uso di antiacidi, attuato a volte senza un’adeguata valutazione gastro-enterologica. Stessa problematica si verifica nei casi di ipofunzione epatica con insufficiente produzione di sali biliari, oppure per abuso di crusca o altre fibre vegetali in funzione lassativa. Anche gli acidi ossalico e fitico inibiranno gli assorbimenti intestinali, compreso quello del calcio, tanto che in caso di osteopenia e osteoporosi bisognerà ridurre l’impiego di verdure ricche di ossalati, come asparagi, rabarbaro, spinaci, crescione, barbabietola, pomodori, etc., oppure eccessive quantità di cereali o farine integrali di grano, orzo, avena e mais, che contengono notevoli quantità di acido fitico.

La riduzione degli estrogeni in post-menopausa viene ritenuta un’altra della cause favorenti la comparsa di demineralizzazione, soprattutto in alcune tipologie costituzionali femminili. Gli estrogeni, infatti, contribuiscono a mantenere positivo il bilancio del calcio organico e la sua deposizione nella matrice ossea, tanto da indurre in passato alla prescrizione della terapia ormonale sostituiva come prevenzione dell’osteoporosi. Oggi se ne sono valutati i numerosi effetti collaterali e, oltre al calcio e alla Vitamina D, si sono resi disponibili farmaci più specifici come alendronati e difosfonati, che vengono prescritti solo nei casi di grave rischio di fratture per osteopenia severa.

Dal punto di vista nutrizionale sarà possibile contrastare l’osteoporosi e la conseguente necessità di instaurare la terapia farmacologica, utilizzando fito- e catecolestrogeni alimentari, purché non siano controindicati per pregresso tumore del seno estrogeno-sensibile. In ogni caso bisognerà garantire un’adeguata quantità di lipidi indispensabili per la sintesi della Vitamina D e consigliare attività fisica ed esposizione ai raggi solari. Per facilitare la deposizione del calcio alimentare nel tessuto osseo, è fondamentale mantenere stabilmente alcalino il pH del sangue, non tanto e non solo riducendo gli alimenti “acidificanti”, come la carne, o esagerando con quelli “alcalinizzanti”, come i vegetali, ma soprattutto stimolando opportunamente i metabolismi organici per garantire una efficiente e regolare eliminazione dei radicali acidi.

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Obesità “pancreatica” o insulinemica

Obesità “pancreatica” o insulinemica

L’idea che il corpo, non ricevendo il cibo dall’esterno possa dimagrire “mangiando se stesso”, è fisiologicamente ingenua e scientificamente falsa, in quanto gli organi direttamente implicati nel metabolismo necessitano di energia biodisponibile e costante. E’ pienamente condivisibile l’affermazione dei nutrizionisti clinici di un tempo che “i grassi bruciano al fuoco degli idrati di carbonio”, oggi ignorata dalla maggior parte dei dietologi. La gestione del carico glicemico dei pasti sarà particolarmente importante nel trattamento dell’obesità “pancreatica” o insulinemica, statisticamente frequente sia come forma primitiva in soggetti con predisposizione costituzionale agli squilibri glicemici o al diabete, sia come complicazione endocrino-metabolica sovrapposta ad altre forme di obesità, in particolare quelle con iperfunzione surrenalica o con disfunzioni renali, ma anche in quella che potrebbe insorgere in post-menopausa, soprattutto in donne con deficit estrogenico in erà fertile.

Nelle forme tipiche, la localizzazione dell’adipe si verificherà nelle zone centrali del corpo, dal bacino all’arcata costale, con evidenti cuscinetti laterali, tanto da essere identificata come la classica obesità “a mela”. In vario grado potranno essere interessate anche le cosce e le gambe, con caviglie grosse e, nei casi più eclatanti, con notevole imbibizione linfatica di tutto l’arto inferiore. Costante sarà la scomparsa del punto vita, che differenzierà nettamente questo tipo di obesità da quella “epatica” o ginoide. La tendenza spontanea di questi soggetti sarà quella di sviluppare patologie dismetaboliche come ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e diabete. Se le alterazioni della glicemia e dell’insulina dovessero provocare aumento del cortisolo e degli altri ormoni steroidei, la loro forma rassomiglierà in parte a quella dei soggetti con iperfunzione surrenalica: tenderanno a ingrossare anche nella parte superiore del corpo e potranno, allora, sviluppare patologie cardiovascolari e ipertensive. Tuttavia, raramente perderanno il carattere predominante dei loro accumuli adiposi, che si presenteranno morbidi, caldi e flaccidi, contrastando nettamente con la compattezza e la fibrosità dell’obesità francamente surrenalica.

Tenendo conto del fatto che in tutte le forme di obesità la necessità primaria sarà sempre quella di attivare il metabolismo rallentato, in questo caso sarà necessario stimolare prima di tutto la tiroide, in quanto si tratta di individui con una tendenza costituzionale all’ipotiroidismo. Tale stimolo sarà realizzato con un frequente impiego del pesce, proposto in tutte le forme, soprattutto nella modalità frittura, in modo da realizzare contemporaneamente anche una stimolazione diretta del fegato. Possibile proporre il pesce anche nel pasto serale, poiché si tratta di individui che non soffrono di disturbi del sonno e che si potranno giovare di uno stimolo metabolico anche nelle ore notturne. Scarsamente efficace, invece, il pesce lesso, in quanto privato di parte dello iodio e del fosforo persi per diluizione nell’acqua di bollitura. Quest’ultima osservazione è valida anche per una serie di verdure contenenti iodio, come quelle appartenenti alla famiglia delle crucifere, per le quali sarà meglio evitare la bollitura preliminare, ripassandole a crudo in aglio e olio extravergine d’oliva, oppure proposte in pastella o fritte dorate, in modo da impedire qualsiasi perdita dei nutrienti.

Oltre a quello tiroideo ed epatico, si potrà sfruttare anche lo stimolo neurologico esercitato da sostanze nervine come tè o caffè in quantità moderate o da eccitanti cellulari come l’acido citrico del limone o del pompelmo. In assenza di patologie concomitanti e di qualsiasi rischio di disfunzione renale, sarà possibile anche una sollecitazione iperproteica controllata da frequenti analisi delle urine, con carne a pranzo e pesce o uova di sera, in pasti che prevedano comunque un’adeguata quota di carboidrati e di acqua di vegetazione fornita dalle verdure crude e da frutti a basso indice glicemico.

La necessità di esercitare un marcato stimolo metabolico in soggetti con tendenza all’imbibizione tessutale e al rallentamento delle funzioni vitali giustificherà la limitazione o l’esclusione di alimenti troppo ricchi di potassio e calcio, in quanto l’azione miorilassante e neurosedativa non contribuirà a velocizzare le suddette funzioni vitali. Da segnalare soprattutto l’effetto negativo dei derivati del latte, il cui contenuto in calcio contrasterà con la necessaria sollecitazione della funzione tiroidea. I formaggi potranno aumentare i valori ematici di colesterolo e trigliceridi, ma avranno anche un effetto di freno del transito intestinale e saranno di notevole impegno per il fegato, a cui, invece, verrà richiesto di accelerare il suo lavoro biochimico. Una particolare attenzione sarà riservata al carico glicemico complessivo dei pasti, associando gli alimenti in modo da non provocare un’eccessiva secrezione di insulina, che contribuirebbe a perpetuare il sovrappeso e a favorire l’evoluzione verso forme di diabete dismetabolico.

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