Alimenti sinergici e contrari ai farmaci antiepilettici: linee guida bionutrizionali

Per informazioni più dettagliate, relative anche alle varie categorie di farmaci antiepilettici e ai loro effetti collaterali, si può scaricare in PDF il Capitolo completo, estratto dal libro: Fausto Aufiero, Alimentazione e psicofarmaci, cibo e benessere neuropsichico, Edizione Nutrire La Vita, 2023.

Nelle sindromi epilettiche, dette anche “comiziali” o “morbo sacro”, il disturbo o la perdita momentanea dello stato di coscienza dipendono da cause organiche quasi sempre ben documentabili. La prova che non si tratta di alterazioni dell’autocoscienza, tipiche delle cosiddette malattie mentali, è dimostrata dal fatto che questa malattia ha interessato grandi personaggi storici, ai quali non mancava certo genialità e capacità intellettiva e creativa. Fra i tanti, sembra che ne fosse affetto Giulio Cesare, Giovanna D’Arco e Gustave Flaubert, ma anche il grande scrittore russo Fjòdor Dostojevskij. Nel romanzo “L’Idiota”, egli descrive per bocca di uno dei personaggi, il principe Miskin, ciò che succedeva durante la crisi: “improvvisamente gli si spalancò davanti come un abisso: una straordinaria luce interiore gli illuminò l’anima. Quella sensazione durò forse un mezzo secondo; nondimeno egli si ricordò in seguito con chiara consapevolezza il principio, la prima nota dell’urlo terribile che gli sfuggì dal petto… Poi la sua coscienza, in un attimo, si spense e subentrò una tenebra fitta”.

I riferimenti storici relativi a questa malattia sono molto antichi. La parola epilessia è di origine greca e deriva dal verbo “epilambànomai”, cioè “sono colto di sorpresa, sono assalito”, perché, a differenza di altre malattie, sopraggiungeva all’improvviso senza dare il tempo al malato di accorgersi di cosa gli stesse accadendo. L’impressione era quella di essere colpiti dall’ira divina, da qui il termine di “morbo sacro”. Nella Roma antica, invece, questa malattia era nota come “morbus comitialis”, in quanto l’eventuale presenza di convulsioni epilettiche in uno dei partecipanti a un comizio era ritenuta di malaugurio e provocava lo scioglimento dell’adunanza. Persino nel celebre quadro di Raffaello Sanzio, rappresentante la Trasfigurazione del Cristo, in un particolare è visibile un fanciullo con gli occhi sbarrati e additato da chi gli sta vicino, plastica espressione di una crisi epilettica in corso scatenata dalla intensa situazione psico-emotiva del momento (figura 1).

Altrettanto emblematica è la similitudine fra crisi mistica ed epilettica, ben raffigurata nella conversione di San Paolo, dipinta da Caravaggio (figura 2): “E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti. Rispose: Chi sei, o Signore?. E la voce: Io sono Gesù, che tu perseguiti” (Atti degli Apostoli, 9, 1-9).

Tra il V e il IV sec. a.C. Ippocrate, considerato padre della medicina, fu il primo a sostenere che il cosiddetto “morbo sacro” non aveva nulla di divino ma era una malattia da ricondurre al cervello – si badi che Egli non distingueva tra malattie mentali e fisiche, perché riteneva che corpo e mente fossero una sola cosa: se l’uno stava male, stava male anche l’altro – sostenendo che “Questa malattia non mi sembra più divina di tutte le altre ma, come le altre, ha una sua causa naturale”. Ippocrate pensava ad una malformazione del cervello o comunque ad una mancanza d’aria in esso: il medico greco cercava di spiegare l’epilessia come un eccesso di “flegma”, provocato da raffreddamenti che portano ad una secrezione eccessiva di muco da parte del cervello. Sebbene la spiegazione non potesse essere scientifica in senso moderno, tuttavia gli va riconosciuto il merito di essere stato il primo a laicizzare tale sindrome e aver, così, gettato le basi per studiare soluzioni a portata del pensiero umano.

Dal punto di vista elettro-fisiologico, la crisi epilettica è un evento clinico transitorio, dovuto a un’improvvisa, diffusa e ipersincrona depolarizzazione delle membrane neuronali che determina una scarica improvvisa, con manifestazioni che variano in base all’area di tessuto nervoso interessato. L’elettroencefalogramma, di cui nella figura 3 si vedono i tracciati tipici della vita di veglia, del sonno e dello stato di coma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è dirimente per capire se un soggetto è epilettico o a rischio. Infatti, la diagnosi è sostanzialmente clinica con differenze legate alla sede e al numero di neuroni coinvolti dalla scarica anomala, nonché al grado di maturazione cerebrale del paziente. Anche le crisi convulsive hanno la stessa genesi fisiopatologica, per esempio quelle febbrili nei bambini o quelle dipendenti da cause identificabili come ipoglicemie, malformazioni, malattie metaboliche, tumori cerebrali, traumi, infezioni, ecc. Invece, si parla di epilessia conclamata solamente quando vengono soddisfatti due criteri: il primo è clinico ed è costituito dalla presenza sintomatologica delle crisi; il secondo implica la loro ripetitività; questo significa che un’unica crisi, anche se di natura sicuramente epilettica, non consente di formulare una diagnosi certa di epilessia richiedente immediata terapia specifica.

La diagnosi, quindi, si basa su dati clinici desunti dalle informazioni che il paziente stesso è in grado di fornire, e soprattutto da ciò che possono riferire testimoni oculari opportunamente interrogati. Il sussidio elettroencefalografico può dare informazioni sulla funzionalità elettrica di diverse aree neuronali e permette di registrare le scariche abnormi responsabili delle crisi (figura 4). Queste ultime possono essere circoscritte, oppure generalizzate, scatenate da particolari manovre, quali l’iperventilazione o la stimolazione luminosa intermittente, possono essere correlate con l’evento critico (EEG critico), oppure costituire un elemento del tracciato di base (EEG intercritico). La valutazione dell’EEG deve necessariamente essere riportata nell’ambito del contesto clinico, in quanto la registrazione di anomalie non consente di per sé di formulare la diagnosi: anomalie di tipo epilettico, infatti, possono essere registrate anche in soggetti che non abbiano mai presentato crisi nel corso della loro vita.

 

Le sindromi epilettiche

All’osservazione bionutrizionale capitano frequentemente pazienti epilettici adulti e, ancor di più, in età pediatrica. Anche quando la richiesta terapeutica non riguarda in modo diretto la loro patologia, non si può prescindere dalla conoscenza di quest’ultima e da quella degli effetti collaterali dei farmaci assunti. Di questi ultimi, infatti, bisognerà tener conto nella programmazione nutrizionale, scegliendo i cibi più adatti per non interferire con la terapia antiepilettica.

Quindi, sia pure in modo sintetico, vanno definite quelle che sono le varie espressioni sintomatologiche della malattia, in base alle quali viene prescritta la terapia da parte del neurologo. In linea generale, si distinguono due forme principali di crisi epilettiche, quelle generalizzate e quelle focali. Si parla di crisi generalizzata se, dall’inizio, l’intero cervello viene interessato dalle scariche neuronali. Invece, se le scariche sono circoscritte a una sola area del cervello, il cosiddetto focolaio epilettico, si parla di crisi focale, che può diventare secondariamente generalizzata.

È utile sapere come, sulla base dei sintomi clinici e dell’EEG, i medici specialisti distinguono le diverse forme di crisi:

Crisi di assenza - Con questa definizione si indicano crisi minori, di breve durata e senza spasmi. I sintomi principali che le caratterizzano sono una breve “assenza” con mancanza di lucidità e perdita di memoria. Le assenze si manifestano più di frequente nei bambini piccoli e in età scolare e sono le forme più frequenti di crisi epilettiche nei bambini. Molto spesso il trattamento bionutrizionale contribuisce a renderle meno frequenti e di minore intensità. Con l’avanzare dell’età, queste assenze diventeranno sempre più rare.

Crisi miocloniche - Sono caratterizzate da contrazioni improvvise, “fulminee” e di breve durata, che interessano per lo più gruppi muscolari circoscritti e influenzano il movimento, ma senza perdita di coscienza. Alcune crisi miocloniche interessano soltanto la muscolatura delle spalle e delle braccia, in altre forme possono essere coinvolti tutti i muscoli. L’intensità può variare di molto. Le crisi miocloniche rientrano nelle crisi generalizzate e possono manifestarsi a qualsiasi età, ma iniziano più di frequente nel periodo della pubertà; si può facilmente intuire come sia importante nutrirsi in modo da non turbare questa delicata fase della vita, che implica adattamenti neuro-endocrini, psicologici e metabolici.

Crisi focali - Iniziano in un’area circoscritta del cervello, ad esempio in una parte del lobo temporale o frontale. In certi casi si limitano a questa determinata zona iniziale. Possono essere accompagnate o meno da disturbi della coscienza e assumere forme molto diverse. Il loro arrivo è a malapena percettibile per le persone esterne. In caso di crisi con disturbi della coscienza, i diretti interessati sembrano assenti, dissociati e senza un contatto normale, come in trance o in sogno; in seguito, non hanno alcun ricordo di quanto è accaduto.

Crisi generalizzate tonico-cloniche - Sono le forme più drammatiche e impressionanti di crisi epilettiche, dette anche “grande male”. Questo tipo di crisi si articola in tre fasi. I sintomi della fase tonica sono la perdita di coscienza, caduta a terra, irrigidimento dell’intero corpo e pupille dilatate non reagenti alla luce. Nella fase clonica si manifesta una contrazione al viso, alle braccia/gambe e al tronco e una breve apnea. Nella fase successiva si instaura nuovamente la respirazione, la persona colpita è di nuovo cosciente, ma esausta.

Le crisi focali possono degenerare anche in crisi di grande male e vengono pertanto dette crisi generalizzate tonico-cloniche secondarie. Talvolta, le descrizioni o le osservazioni permettono di identificare a posteriori il focolaio epilettico nel cervello.

Stato di male epilettico - Si definisce stato epilettico un singolo attacco che dura per più di cinque minuti o attacchi che si susseguono così velocemente che la persona colpita non ha la possibilità di riprendersi. Esistono stati epilettici con o senza spasmi e altri con o senza perdita di coscienza. Uno stato epilettico convulsivo può essere fatale e, pertanto, deve essere trattato prontamente in modo idoneo, ma anche le altre forme richiedono una diagnosi rapida e una immediata terapia.

 

Patogenesi dell’epilessia e prime indicazioni nutrizionali

Quale che sia la sua origine, la manifestazione clinica dell’epilessia è la conseguenza di una improvvisa alterazione del funzionamento neuronale che genera una scarica parossistica ad alta frequenza, oppure una scarica sincrona a bassa frequenza e di grande voltaggio4. Nel paragrafo precedente si è visto che non esiste una sola epilessia, ma tante espressioni diverse di essa, sia per le forme idiopatiche che per quelle la cui causa etiologica è documentata come danno di una o più zone del tessuto nervoso. Tuttavia, l’identificazione dei fattori etiologici è stata di scarso aiuto per la terapia farmacologica, che si è invece avvalsa della graduale scoperta di quelli patogenetici. La neurofisiologia della trasmissione sinaptica, il ruolo dei neurotrasmettitori e dell’equilibrio elettrolitico, in particolare degli ioni sodio, potassio, calcio, cloro e magnesio, hanno permesso la comprensione, se non del “perché” si verifica la crisi, almeno del “come” essa avviene e si propaga.

Per quanto riguarda i neurotrasmettitori, nel capitolo ad essi dedicato è stato già affrontato il tema del substrato alimentare necessario per ognuno di essi. Altrettanto importante in Bioterapia Nutrizionale è la costante attenzione all’equilibrio elettrolitico, affinché nella sequenza quotidiana dei pasti non si verifichi il prevalere o la carenza degli ioni citati prima. Per quanto riguarda il sodio ed il potassio, il loro bilanciamento è fondamentale per i processi bioelettrici di depolarizzazione e ripolarizzazione della membrana (figura 5). Per il calcio si rimanda al prossimo paragrafo dedicato alla vitamina D, mentre è noto che deficit protratti di magnesio nell’uomo e negli animali possono provocare tensioni neuromuscolari, stress, insonnia e disturbi neurologici, tra cui ipereccitabilità, che non è certo auspicabile in pazienti epilettici. Infine, il canale del cloro ClC-2 consente il passaggio di questo ione in seguito a iperpolarizzazione della membrana, allo scopo di mantenere bassa la sua concentrazione nella cellula neuronale e consentire l’azione inibitoria del GABA, importante per controbilanciare lo stato di ipereccitabilità5. Qualora siano accertati specifici deficit elettrolitici non facilmente gestibili con opportuni accorgimenti nutrizionali, sarà necessario ricorrere anche alla somministrazione di integratori per il tempo necessario.

 

Il ruolo del calcio e della vitamina D

Il calcio è il minerale più abbondante nel corpo umano; il 99% di esso è contenuto nelle ossa, mentre solo l’1% è ripartito nei tessuti molli e nei liquidi intra ed extra cellulari, ma è indispensabile per l’attivazione di sistemi enzimatici, la trasmissione dell’impulso nervoso, la contrazione muscolare, la permeabilità delle membrane e la moltiplicazione e differenziazione cellulare. A livello neuronale, i canali del calcio giocano un ruolo nella fase di depolarizzazione dell’attività ritmica e sono state identificate anomalie genetiche che coinvolgono questo ione nell’eziopatogenesi delle epilessie, in particolare in quelle caratterizzate da assenze e nell’epilessia mioclonica giovanile6. Il ruolo determinante dei canali del calcio nel controllo dell’eccitabilità neuronale e nella genesi delle epilessie è inoltre dimostrato dalla presenza di modelli murini mutanti per diverse subunità di canali del calcio voltaggio-dipendente, che sviluppano caratteristiche assenze generalizzate7.

Oltre all’apporto di alimenti contenenti calcio, il metabolismo di quest’ultimo dipende anche dalle molteplici funzioni organiche della vitamina D, che va monitorata ed eventualmente integrata, in quanto una sua riduzione costituisce uno dei possibili effetti collaterali dei farmaci antiepilettici. In uno studio clinico su 31 soggetti epilettici si è rilevato come la terapia con acido valproico protratta per oltre sei mesi ha provocato nel 94% dei pazienti una carenza di vitamina D. Tale carenza non si è risolta facilmente nemmeno con l’assunzione di un integratore, nonostante all’inizio del trattamento i pazienti presentassero un livello normale (maggiore di 30 ng/ml) o sufficiente (20-30 ng/ml).

La vitamina D, che sarebbe più corretto definire un ormone, comprende cinque tipi diversi di molecole liposolubili (D1-D2-D3-D4-D5), di cui la D3 (colecalciferolo) e la D2 (ergocalciferolo) sono le più importanti per l’organismo umano. La D2 è presente nei funghi e in alimenti vegetali che non devono mai mancare in una corretta alimentazione, mentre la D3 richiede l’impiego di progotti animali ed è necessario esporre la cute alla luce solare per convertire il precursore nella forma attiva. La vitamina D ha un ruolo importante non solo per le ossa, ma anche per il sistema nervoso e, in particolare, nelle malattie neurodegenerative e neurologiche come l’Alzheimer, l’epilessia, le demenze, il Parkinson, la sclerosi multipla e la schizofrenia. Si tratta di una sostanza coinvolta nella neuroprotezione e nello sviluppo del cervello. È stato scoperto che vi sono recettori specifici sui neuroni, sulle cellule gliali e nel sistema nervoso periferico nonché nel midollo spinale. Da ciò si è ipotizzato che la vitamina D possa avere un effetto anticonvulsionante. Se si tiene conto che l’epilessia è una malattia molto diffusa tra i bambini, nei quali il processo di ossificazione è importantissimo per la loro crescita, una carenza di vitamina D causata dalle terapie antiepilettiche può compromettere gravemente il loro sviluppo. Si riporta in nota il riassunto di uno studio molto interessante riguardante questo problema8.

Fin dagli anni Settanta del secolo scorso, sono stati eseguiti numerosi studi per verificare se l’integrazione di vitamina D in pazienti affetti da epilessia potesse in concreto ridurre le convulsioni, particolarmente in quei soggetti resistenti ai farmaci, ovvero nel 30% dei casi. In effetti è stato osservato che la somministrazione di questa vitamina portava ad una riduzione della frequenza delle convulsioni, anche se ad oggi il suo meccanismo d’azione non è ancora chiaro. Uno studio pubblicato su Epilepsy and Behavior prevedeva l’assunzione di 5.000 UI/giorno di vitamina D3 in pazienti affetti da crisi focali o convulsioni tonico-cloniche con resistenza a due o più farmaci antiepilettici ed anticonvulsivanti. Le crisi epilettiche si sono ridotte del 26.9% dopo sei settimane di assunzione e del 10.7% dopo dodici settimane. A fronte dei risultati che si ottenevano con la terapia farmacologica, questo studio non fu ritenuto significativo e la comunità scientifica ritenne necessario approfondire il ruolo della vitamina D.

Infatti, nel 2012 è stato condotto un altro studio che ha preso in considerazione gli effetti della normalizzazione dei livelli di 25-idrossivitamina-D in pazienti con epilessia farmaco-resistente tramite somministrazioni giornaliere. Anche in questo caso si è potuta registrare una diminuzione significativa delle crisi di circa il 40%. Pare che ora, alla luce di questo e di altri studi più recenti, si sia propensi a credere che l’integrazione di vitamina D possa influire sulla regolazione dei livelli sierici e avere un effetto anticonvulsionante. Dal punto di vista bionutrizionale va fatta una logica considerazione: anche se la vitamina D non sarà mai considerata una valida e consolidata terapia antiepilettica, una sua carenza va sempre reintegrata.

 

Epilessia e vigilanza neuropsichica

In quanto cellula, singolarmente il neurone non ha una intelligenza finalistica ma, nella zona sinaptica alla fine dell’assone, si limita a trasferire, accelerare, rallentare o bloccare un potenziale d’azione con carica bioelettrica positiva o negativa. Quali che siano i fattori che alterano questo meccanismo neurorecettoriale, l’epilessia riguarda l’anomalo funzionamento dei canali ionici di membrana e, pertanto, rientra nel vasto novero delle cosiddette “canalopatie” caratterizzate dallo squilibrio di quegli elettroliti, di cui nel paragrafo precedente si è raccomandato un giusto apporto nutrizionale9. Questa precisazione è importante, in quanto permette di distinguere in modo netto l’epilessia da altre patologie organiche del sistema nervoso come le neuroatipie delle sindromi autistiche, che riguardano non direttamente il neurone, bensì l’ambiente che lo circonda, definito oggi “connettoma”, di cui se ne valuterà anche l’implicazione immunitaria in un capitolo dedicato.

Le alterazioni più o meno intense della vigilanza mentale nell’epilettico sono dovute ad una scarica ipersincrona. Per garantire i fenomeni di coscienza ed autocoscienza, il cervello ha bisogno di popolazioni neuronali ampiamente distribuite con cariche negative e positive. Se, per un tempo anche limitato, prevalgono le une o le altre, alle funzioni cognitive superiori mancherà il supporto biologico. In un confronto con il Prof. Antonio Parisi, neurofisiopatologo, si è dibattuto il significato di coscienza e consapevolezza, constatando che lo scienziato non ritiene ancora degno di studio quello stato esclusivamente umano, e superiore rispetto ad esse, che in diversi capitoli precedenti è stato definito “autocoscienza”; vale a dire, quella dimensione che implica la sfera della libertà individuale e dell’autodeterminazione, oltre le necessità biologiche di specie. Ci si è trovati d’accordo sul fatto che coscienza e consapevolezza sono sinonimi e il neurofisiopatologo ha perfettamente ragione quando sostiene che serve una appropriata distribuzione delle cariche neuronali del cervello. Esse richiedono, però, anche un’altra funzione neurologica, quella che permette la memoria e l’orientamento spazio-temporale. Uno smemorato, per esempio dopo un trauma cranico, non può essere consapevole di sé stesso nel senso compiuto del termine. Un animale, e nei mammiferi superiori è del tutto evidente, è perfettamente cosciente e vigile, ma una differenza sostanziale è che queste funzioni nell’Essere umano vanno ben oltre le necessità della sopravvivenza biologica e della perpetuazione della specie: esse sono anche alla base delle potenzialità creative specifiche del livello autocosciente.

Il riflesso spinale è invece subcosciente e dipende dai centri di quello che MacLean definì cervello rettiliano. Si tratta di quel riflesso, condiviso con gli animali, che, senza pensarci, fa allontanare la mano poggiata per errore su una piastra rovente. Se l’informazione dovesse arrivare prima alla neocorteccia e alla decisione di spostarla, la mano sarebbe già bruciata.

 

Prima delle terapie farmacologiche

I primi farmaci utilizzati come cura delle sindromi epilettiche risalgono alla seconda metà del secolo scorso, un tempo relativamente recente nella storia della medicina. Viene da chiedersi in che modo si tentava concretamente di aiutare il malato, oltre ai riti magici e a intrugli di varia natura somministrati allo scopo di scacciare gli spiriti maligni. Nonostante già Ippocrate, e poi Galeno, avessero intuito e sostenuto la genesi organica e naturale di questa malattia, nel Medioevo si arrivò persino a concepirla come una forma di possessione demoniaca da scacciare con esorcismi. Non è facile spegnere il riverbero di questi pregiudizi che hanno condizionato persino gli albori della moderna psichiatria, evidenziati dalla difficoltà a distinguere in modo netto l’epilettico dal malato mentale. Ancora oggi la discriminazione sociale spinge spesso i pazienti e le famiglie a vivere la malattia con disagio e vergogna e quindi a nasconderla. In molti casi la società influenza la vita di chi è malato, ma per fortuna esistono nuove ricerche e conoscenze che permettono di dare migliori informazioni sul problema, di creare associazioni di sostegno e gruppi di auto per persone epilettiche e per i loro familiari.

Può rivestire interesse il fatto che i medici greci si rifacevano alle fasi lunari considerando questa malattia il risultato di un’offesa alla Dea Selene (Luna), da cui la definizione dell’epilessia anche come “mal lunatico”. Ancora oggi, nell’accezione comune, si dice “hai la luna storta” o viene definito “lunatico” un tipo strano o dai comportamenti imprevedibili, come potrebbe sembrare un paziente in corso di crisi epilettica. Va detto, tuttavia, che uno studio sulla rivista Epilepsy & Behavior del 2004 non ha trovato, o non ha cercato in modo spregiudicato, nessun collegamento tra crisi epilettiche e luna piena, nonostante l’insistenza di numerosi pazienti. Eppure, non ci sono dubbi sul fatto che la forza gravitazionale cosmica della luna12 influisce su tutti i liquidi del pianeta, dal ciclo femminile (la fase ovulatoria del ciclo in coincidenza con la luna piena comporta una maggiore imbibizione dei tessuti), alla probabilità di partorire delle gestanti a termine, dalla linfa delle piante per gli innesti o la potatura, alla fermentazione del vino, dalle variazioni del tono dell’umore alla crescita dei parassiti intestinali, tanto per citarne alcuni. Questa influenza andrebbe presa più sul serio da una ricerca scientifica forse non sufficientemente aperta alla visione dinamica dei fenomeni vitali normali e patologici.

Prima di entrare nello specifico delle linee guida bionutrizionali utili nei soggetti affetti da epilessia per cercare di ridurre la frequenza e l’intensità delle crisi, o per mitigare gli effetti collaterali dei farmaci assunti, è interessante accennare al fatto che l’unica terapia che, in molti casi, dava risultati concreti era di tipo nutrizionale. Tutto iniziò negli anni Venti del secolo scorso dalle intuizioni di un osteopata del Michigan, Hugh W. Conklin, il quale ipotizzò che l’epilessia potesse essere causata da una sorta di intossicazione da parte di alcuni metaboliti prodotti dall’intestino13. Egli, allora, riuscì a trovare pazienti per sperimentare il digiuno come cura dell’epilessia per un periodo lungo di tempo, ottenendo addirittura un tasso di guarigione del 90% nei bambini e 50% negli adulti. Il trattamento venne poi ripreso da molti medici soprattutto nei casi di epilessia farmacoresistente e, fino a tempi molto recenti, esistono in letteratura numerose pubblicazioni al riguardo14. Non si hanno dati relativi al perdurare dei risultati terapeutici di un digiuno drastico e di difficile applicazione su larga scala per pazienti in età pediatrica, ma si riscontrò un vantaggio anche con la sola esclusione dei carboidrati. Fu l’inizio delle diete chetogeniche, le cui numerose implicazioni nutrizionali meritano un paragrafo ad esse dedicato.

 

Il dilemma delle diete chetogeniche

In un testo riguardante le possibili implicazioni nutrizionali che, in positivo o negativo, influenzano l’equilibrio neuropsichico, non può mancare la dettagliata trattazione di una dieta, quella chetogenica, programmata, come si è già detto, non per dimagrire ma per cercare soluzioni terapeutiche in casi particolari di epilessia, soprattutto quelle farmaco-resistenti in età pediatrica. Prima di avanzare ipotesi sul perché a questo tipo di dieta corrispondono vantaggi terapeutici, e se questi ultimi siano duraturi nel tempo, va segnalata la diffusione delle sue numerose varianti come metodo dimagrante. Di fatto, l’induzione di chetoacidosi da privazione di carboidrati si è rivelata una efficace “scorciatoia” per perdere peso in modo rapido, il che ha portato al fiorire di una serie di proposte nutrizionali tutte improntate ad una riduzione più o meno drastica di zuccheri semplici e complessi. In condizioni normali, la fisiologia e la biochimica insegnano che la maggior parte dei tessuti e degli organi ricavano dal glucosio l’energia necessaria per funzionare, ad eccezione del cuore che lavora con una miscela di glucosio, acidi grassi e chetoni. In caso di digiuno o di assenza di carboidrati, una frazione sempre più significativa di glucosio viene prodotta tramite un processo denominato gluconeogenesi, distruggendo proteine della massa magra e metabolizzando aminoacidi, in particolare alanina e glutammina. Fortunatamente, esiste una seconda possibilità di ottenere energia a partire dagli acidi grassi, con produzione di corpi chetonici e “smontando” la massa grassa, il che ha enfatizzato la scelta di questo tipo di dieta in funzione dimagrante.

Quelli appena citati sono meccanismi biofisiologici possibili, ma del tutto alternativi rispetto al normale approvvigionamento glicidico garantito da una alimentazione completa di tutti i suoi nutrienti. Poiché solo all’Uomo è concesso il privilegio di sbagliare per imparare a correggersi da solo, mentre la Natura è già perfetta e non erra mai, c’è da chiedersi la ragione di queste vie alternative per assicurare la sopravvivenza. Una ipotesi potrebbe essere quella di fronteggiare la scarsità di cibo in tanti periodi storici e nella realtà attuale di tutte le popolazioni denutrite del pianeta. Se questa ipotesi fosse corretta, sarebbe evidente che la condizione di chetoacidosi costituisce una forma di adattamento di emergenza, che sacrifica i lipidi e le proteine accumulate nei momenti di abbondanza. Anche solo in funzione dimagrante, un nutrizionista attento alla salute dei suoi pazienti, quindi, dovrebbe riflettere sul fatto che un meccanismo biochimico previsto per condizioni estreme di sopravvivenza, non può essere salutare a lungo termine.

Uno dei pionieri delle diete chetogeniche a scopo dimagrante fu, negli anni Settanta del secolo scorso, il Prof. George L. Blackburn (figura 10) dell’Università di Harvard (USA), che ideò e sperimentò una programmazione nutrizionale incentrata sull’impiego esclusivo di alimenti proteici, con esclusione totale dei carboidrati, in parte dei lipidi, e con la sola concessione di qualche vegetale a basso contenuto glicidico. A fronte dei primi sorprendenti risultati positivi, di questa “filosofia” alimentare se ne impossessò subito il mercato e comparvero integratori proteici di tutti i tipi. Come si può ben immaginare, il pubblico fu inondato da prodotti più o meno “miracolosi” a seconda della capacità pubblicitaria delle singole aziende.

Trascorsero trent’anni fino al 2007, quando lo stesso Blackburn fece una severa revisione critica del metodo ipocalorico e iperproteico e, punto per punto, descrisse in un libro le sue considerazioni15. Nel testo non si trova alcun riferimento all’uso di pasti sostitutivi, vitamine o integratori. Anzi, l’autore stesso si scaglia contro questi supplementi, perché creano false aspettative, un senso di disperazione e sfiducia tra chi li usa, senza contare che essi possono ritardare o distogliere le persone dal mangiare in modo sano ed essere fisicamente attivi. Il libro ha un approccio multidisciplinare e l’argomento è trattato in maniera molto equilibrata basandosi sulle evidenze scientifiche a disposizione sino al 2007. Non si parla solo di alimentazione, dando regole pratiche molto utili, ma anche di attività fisica, interventi motivazionali, terapia cognitivo-comportamentale, mindfulness, controllo dello stress, igiene del sonno e ricerca della felicità. Quest’ultimo punto è veramente interessante e originale per un testo di nutrizione e obesità.

La lezione da imparare – scrive Blackburn – è che è estremamente impegnativo provare a perdere molto peso in poco tempo. Il tuo corpo si ribella contro questi tentativi, facendo riprendere il peso perso con il rischio di indurre strani e poco salutari comportamenti alimentari” (figura 11). E le diete chetogeniche? Quale spazio viene riservato loro nel trattamento dell’obesità da parte di uno dei pionieri di questo tipo di diete? Nessuno! Non vengono neppure menzionate come opzione terapeutica! Anzi è interessante leggere cosa scrive Blackburn delle diete drastiche alla moda: “Non servono a nulla perché non sono sostenibili nel lungo termine, non permettono di acquisire nuove abitudini salutari e si ritorna inevitabilmente a quelle vecchie”. L’autore cita espressamente il suo studio di dottorato degli anni ’70 in cui aveva paragonato la dieta chetogenica (da 400-800 kcal al giorno) con un semplice trattamento ipocalorico (-500 kcal al giorno), su 668 soggetti. Risultato: dopo due anni dal trattamento coloro che avevano seguito la dieta chetogenica avevano recuperato più di metà del peso perso e molti manifestavano seri problemi di salute; invece, alla fine dei due anni il gruppo che era dimagrito lentamente aveva perso peso in egual misura se non più rispetto a coloro che avevano seguito la dieta drastica. Quando si perde troppo rapidamente più del 10% del proprio peso, il corpo inizia ad opporsi al cambiamento, come confermano molti studi clinici.

Eppure, lo stesso Blackburn conosceva Ancel Keys (Figura 12), il noto sostenitore della dieta mediterranea, che già negli anni Cinquanta aveva sperimentato i danni della restrizione alimentare in un esperimento noto come Minnesota Starvation Experiment. In pratica, furono arruolati trentasei giovani obiettori di coscienza normopeso e in piena salute, che si erano offerti volontari rispondendo a uno strano volantino che chiedeva: Will you starved that they be better fed? (Morirai di fame affinché altri vengano nutriti meglio?). Dopo qualche settimana, gli sperimentatori riportarono numerose alterazioni fisiologiche come: ridotta tolleranza alle basse temperature, vertigini, stanchezza estrema, indolenzimento muscolare, dolori addominali, scomparsa del desiderio sessuale, perdita di capelli, ridotta coordinazione, ipersensibilità al rumore e alla luce e ronzii nelle orecchie16. Oltre a questi sintomi, furono rilevati anche importanti cambiamenti in tema con gli argomenti di questo libro: depressione, irritabilità, apatia, ansia, sbalzi del tono dell’umore, fino all’insorgenza di ideazioni ossessive riguardo il nutrirsi, simili a quelle dei soggetti anoressici.

Affamare per dimagrire non è stata mai una strategia perseguita dalla dottoressa Domenica Arcari Morini, ideatrice della Bioterapia Nutrizionale. Le similitudini di questo metodo con la dieta mediterranea sono notevoli, anche se le mutate condizioni socioeconomiche, i differenti stili di vita e di lavoro, oltre a diversi fattori psicologici e culturali, hanno richiesto un adattamento e una rivisitazione moderna di quelli che furono i principi codificati dal Prof. Keys studiando le abitudini alimentari di Pioppi, un piccolo paese di pescatori e contadini del Cilento in provincia di Salerno.  L’esperienza di questo studioso americano innamorato del Sud Italia (dove visse per più di trent’anni e morto a Minneapolis nel 2004 due mesi prima di compiere 101 anni) è affascinante per chiunque sia interessato alle problematiche della nutrizione. In rete è scaricabile un documento gratuito che ne racconta la sua vicenda umana e scientifica17.

Dopo il doveroso excursus sulla controversa dieta chetogenica in funzione dimagrante, resta il problema di comprendere le ragioni che la rendono efficace in alcuni pazienti epilettici. Si è detto che l’utilizzo di questa metodica risale alla prima metà del 1900 e, per anni, essa incontrò un grande successo, con una fase di arresto dopo l’introduzione dei primi farmaci, consegnando il trattamento dietologico dell’epilessia alle note di polverosi libri di testo. Le fortune della chetogenica cambiarono nel 1994 quando i media americani riportarono con enfasi la storia del piccolo Charlie, figlio di un noto produttore cinematografico, curato da una forma intrattabile di epilessia al Johns Hopkins Hospital, dopo che decine di trattamenti diversi, convenzionali e alternativi, avevano fallito. Il padre, entusiasta dei risultati ottenuti, creò la Charlie Foundation, per promuovere l’utilizzo della dieta e finanziare studi sul meccanismo d’azione, contribuendo in maniera decisiva alla nuova popolarità della chetogenica come strumento per il trattamento dell’epilessia in ambito pediatrico.

Ritornando indietro nel tempo, il riscontro di un effetto anticonvulsivante della Water Therapy (praticamente solo acqua) del citato osteopata Hugh Conklin, attirò le attenzioni di diversi endocrinologi tra cui Russel Wilder, che propose di modificare il trattamento del digiuno in uno più sostenibile per il paziente, soprattutto in età pediatrica. Nello specifico, Wilder, a differenza delle diete chetogeniche a scopo dimagrante, propose uno schema alimentare normoproteico, ma ricco di grassi e povero di zuccheri, in grado di determinare una fisiologica produzione di corpi chetonici e ottenere risultati equiparabili al digiuno. L’ipotesi più accreditata è che lo stato di chetosi e la conversione, a livello epatico, degli acidi grassi in corpi chetonici attraverso una serie complessa di reazioni chimiche, consente l’utilizzo di queste piccole molecole (beta-idrossibutirrato, acetone, aceto-acetato) come substrato energetico per organi e tessuti, compresi i neuroni.

Nello specifico, si suppone che l’acido beta-idrossibutirrico contribuisca a ridurre l’azione eccitatoria del glutammato e favorisca quella inibitoria del GABA (acido gamma-amminobutirrico). Inoltre, la chetosi determina un miglioramento della funzione mitocondriale, con aumento della produzione di ATP e della capacità antiossidante endocellulare, il che contribuirebbe alla riduzione dell’eccitabilità neuronale. Gli acidi grassi a catena media, presenti soprattutto nel latte e in olio vegetali come quelli di palma o di cocco (proposti spesso come integratori) hanno anche dimostrato di influenzare il metabolismo degli aminoacidi, innescando un aumento del triptofano nel cervello, a cui si associa una ridotta eccitabilità dell’ippocampo18.

Nonostante i tanti farmaci antiepilettici, il fatto che un terzo circa dei pazienti non risponde alle terapie ha continuato a stimolare la ricerca di soluzioni nutrizionali utili. Per esempio, fra gli acidi grassi a catena media citati prima, va segnalato l’acido decanoico (cioè con una catena di dieci atomi di carbonio), noto anche come acido caprico o caprinico, in quanto presente nel latte di capra, di cui condivide l’odore caratteristico. Anche se non è ipotizzabile un suo impiego farmacologico, è molto interessante il fatto che l’acido decanoico ha lo stesso meccanismo d’azione di uno degli ultimi e più interessanti principi attivi antiepilettici, il Perampanel (Fycomba), che inibisce i recettori del glutammato a livello neuronale19. Degli acidi grassi polinsaturi (PUFA) è dimostrato che facilitano l’apertura dei canali del potassio sulla membrana presinaptica20, modulandone l’eccitabilità e svolgendo una preziosa funzione neuroprotettiva. Di questi ultimi se ne parlerà ampiamente nel paragrafo successivo e nella figura 13 sono sintetizzati i fattori ritenuti essenziali per spiegare alcuni effetti positivi della dieta chetogenica antiepilettica.

 

Revisione della dieta chetogenica

Pur prendendo atto di studi che ne confermano l’efficacia, in Bioterapia Nutrizionale non viene praticata la dieta chetogenica classicamente intesa. L’obiettivo è di programmare un piano alimentare personalizzato e non una dieta, essendo consapevoli che a questa parola viene oggi attribuita una valenza negativa di imposizione, se non di costrizione. Infatti, anche in caso di patologie di una certa severità, la priorità è sempre quella di proporre soluzioni gradevoli, quotidianamente possibili e, ovviamente, efficaci. La conoscenza e lo studio delle abitudini alimentari storiche sono alla base della metodica bionutrizionale, fin dalle prime intuizioni della dottoressa Domenica Arcari Morini, risalenti agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In questo paragrafo si vedrà come sfruttare al meglio i vantaggi documentati in corso di dieta chetogenica, cercando di ridurre al minimo le sue controindicazioni. Infatti, nella valutazione clinica dei pazienti pervenuti alla nostra osservazione, quasi nessuno se ne è giovato a lungo; dopo i primi riscontri positivi in termini di riduzione delle crisi, subentrano disturbi gastrointestinali e metabolici e una insofferenza psicologica rispetto alla tipologia di alimenti proposti.

A differenza delle varie modalità di diete chetogeniche dimagranti, che privilegiano nutrienti di natura proteica, quella antiepilettica è, giustamente, polarizzata sulla quota lipidica, di cui il tessuto nervoso è composto in percentuale elevatissima. Va anche detto, però, che più del 60% delle epilessie insorgono e riguardano la fase neonatale e pediatrica della vita, fase di accrescimento somatico che necessita di una quota adeguata di proteine. Anche qualora i risultati terapeutici fossero confortanti, praticare la dieta chetogenica per tempi lunghi non sarebbe la migliore strategia nutrizionale per favorire i processi di crescita. A questa prima difficoltà se ne aggiungono diverse altre:

  1. a) possono insorgere i citati problemi di rallentato svuotamento gastrico e

          disturbi come vomito, nausea, diarrea o stipsi e dolori addominali;

  1. b) è difficile gestire il confine di una chetoacidosi tollerabile, oltre il

          quale l’acidosi metabolica può diventare pericolosa;

  1. c) possono subentrare deficit di vitamine e micronutrienti che richiedono

          la somministrazione di troppi integratori21;

  1. d) non secondario è il rifiuto psicologico di uno stile nutrizionale

          monotono e poco gratificante, che quasi sempre viene addotto

          come causa della sospensione della dieta.

Per spiegare gli effetti positivi della dieta chetogenica antiepilettica, le ipotesi più accreditate riguardano sostanzialmente il ruolo degli acidi grassi di cui si è parlato nel paragrafo precedente. L’idea che la restrizione degli zuccheri semplici e complessi sia determinante per togliere energia al neurone ipereccitabile è piuttosto aleatoria e del tutto antifisiologica. Sembrerebbe, quindi, che la riduzione degli zuccheri sia necessaria solo per indurre uno stato di chetoacidosi; quest’ultimo, a sua volta, favorisce la sintesi degli acidi grassi utili per conseguire l’effetto terapeutico. Fra questi ultimi, il più importante è l’acido beta-idrossibutirrico, per la cui sintesi da parte del fegato esistono due possibilità: a) partire dall’acido acetoacetico, che richiede l’induzione di uno stato di chetoacidosi, con tutte le controindicazioni citate prima; b) rendere disponibile il butirrato, intervenendo a livello del microambiante intestinale22. In Bioterapia Nutrizionale (figura 14) si privilegia la seconda opzione anche se più difficile e meno rapida, ma certamente consona al detto ippocratrico “primum non nocere”. L’implicazione dell’asse intestino-cervello riguarda, quindi, anche le sindromi epilettiche ma, ancora di più, le neuroatipie come l’autismo. Pertanto, si rimanda al relativo capitolo per una trattazione esauriente dell’argomento.

 

Controindicazioni alimentari

Prima di entrare nel dettaglio di suggerimenti nutrizionali che non incrementino l’ipereccitabilità neuronale, è indispensabile segnalare quei cibi o bevande che vanno ridotti o esclusi. Lo scopo è quello di poter arrivare a linee guida utili sia per attenuare i sintomi della patologia, che per ottenere una sinergia d’azione con i farmaci che il neurologo avrà prescritto. L’utilità di una programmazione nutrizionale mirata è ancora più importante nelle tante manifestazioni epilettiche farmaco-resistenti. Di seguito, una lista di quei nutrienti da considerare potenzialmente controindicati.

Glutammina e alanina - In un regime alimentare che preveda la riduzione degli alimenti glicidici e proteici, lo stato di acidosi induce comunque l’organismo a procurarsi parte degli zuccheri dalle proteine corporee, rendendo disponibili gli amminoacidi, primi fra tutti glutammina e alanina. Tenendo conto che la glutammina è un precursore del neurotrasmettitore eccitatorio glutammato, è ragionevole ridurne l’apporto alimentare nei pazienti epilettici. La glutammina è presente nei cibi a maggiore contenuto proteico, in particolare quelli di origine animale. Pertanto, anche nella programmazione dei pasti in Bioterapia Nutrizionale, si cercherà di non eccedere in quantità e frequenza con la carne rossa di manzo o cavallo, ma anche di agnello, della cacciagione e di alcuni prodotti ittici. I mitili e i crostacei (come le cozze, i gamberetti e i granchi, meno le vongole che, per il loro contenuto di calcio neurosedativo, possono essere utilizzate) e i pesci di mare contengono significative quantità di glutammina, a differenza dei pesci d’acqua dolce. Se si tiene anche conto del fatto che i pesci di mare d’altura (spigola, orata, merluzzo, ecc.) contengono anche significative quantità di iodio e fosforo, è intuitivo che non possono costituire la soluzione proteica ideale in caso di ipereccitabilità neurologica. Saranno, quindi, proposti pesci di acqua dolce come la carpa, il salmerino, la trota, il luccio, l’anguilla, il pesce gatto, il salmone, il coregone (detto anche lavarello), il persico e la tinca. In generale, si tratta di pesci ad elevato contenuto lipidico, il che è in linea anche con le indicazioni della dieta chetogenica classica. In Bioterapia Nutrizionale si fanno usare anche pesci di scoglio e di fondale, per esempio la sogliola, la platessa, il rombo, la rana pescatrice, la gallinella, lo scorfano, la cernia, le triglie e diversi altri, a seconda della zona di provenienza. L’utilità di quest’ultima categoria di prodotti ittici è giustificata dal loro contenuto in silicio e calcio, necessari per i processi di maturazione neurologica, e perciò proponibili anche ai neonati e ai bambini affetti da epilessia. Non per niente, essi sono consigliati dal pediatra durante lo svezzamento. Di minore impatto negativo è il contenuto di glutammina nel latte, nelle uova, nei legumi e in alcune verdure a foglia verde come lattuga, spinaci e cavoli. Da segnalare il rischio di assunzione di integratori a base di glutammina da parte di ragazzi che praticano attività sportive e siano anche a rischio di crisi epilettiche.

Per quanto riguarda l’alanina, essa è un amminoacido precursore della fenilalanina e, a seguire, della tirosina. Quest’ultima fa parte della catena biochimica per la sintesi di catecolamine eccitatorie come adrenalina, noradrenalina e, soprattutto, dopamina. Ne consegue che anche l’apporto di alanina dagli alimenti deve essere ridotto e, oltre alle proteine della carne, in generale sarà utile non eccedere con semi oleosi, soprattutto arachidi.

Formaggi - L’impiego di latte e derivati nelle cerebropatie con crisi epilettiche presuppone la verifica della loro tollerabilità intestinale e neurologica con test specifici, o anche solo clinicamente, qualora i sintomi peggiorino ogni volta che questi prodotti vengono consumati. Il calcio in essi contenuto sarebbe utile anche in funzione sedativa, oltre che per favorire i processi di accrescimento e mineralizzazione nei piccoli pazienti. Tuttavia, le sempre più frequenti problematiche derivanti da intolleranze al lattosio o allergie alla caseina, possono ridurre di molto la loro possibilità di impiego nutrizionale. Se le suddette problematiche non sono documentate fin dall’inizio, in corso di trattamento nutrizionale del paziente epilettico si terrà conto della eventuale comparsa di sintomi avversi. Il riferimento generico a latte e derivati deve essere approfondito valutando le notevoli differenze tra latte (e quali tipologie di latte), yogurt, kefir, ricotta, burro, formaggi molli e formaggi fermentati o stagionati. Anche se non si può stabilire una netta linea di confine tra questi prodotti, ai fini di un loro impiego nelle sindromi epilettiche, si dovrà fare molta attenzione ai formaggi. Infatti, i processi di stagionatura ed essicamento comportano una modifica del latte e la comparsa di nuovi nutrienti, non tutti idonei per contrastare l’ipereccitabilità neurologica o gli effetti collaterali dei farmaci assunti23.

In realtà, tutti i formaggi, a prescindere dal tipo di stagionatura, nascono dalla fermentazione del caglio; quindi, la distinzione tra formaggi fermentati e formaggi non fermentati non sarebbe corretta, men che meno con quelli stagionati. Quando si parla di formaggi fermentati solitamente ci si riferisce agli erborinati, cioè quelli che hanno subito un’intensa fermentazione. Negli erborinati, infatti, lo sviluppo di muffe produce la loro tipica cremosità e il loro sapore deciso. I più noti fra questi ultimi sono il Gorgonzola della Lombardia, il Roquefort e il Camembert francesi. La loro principale controindicazione riguarda il significativo contenuto di istamina e, soprattutto, di tiramina, più volte citata come precursore delle catecolamine e di neurotrasmettitori eccitatori, oltre che di cefalee molto severe.

Altrettanto prudente deve essere l’impiego di tutti quei formaggi definiti genericamente come “stagionati”, di cui i più noti sono il Parmigiano, Reggiano, il Grana Padano e tutte le varietà regionali di pecorino. La stagionatura rappresenta l’ultima fase della produzione e si tratta di un passaggio importante e piuttosto delicato, durante il quale si completa la trasformazione dei componenti del latte. Temperatura, umidità e durata del processo sono variabili fondamentali, che influiscono sulla consistenza della pasta del formaggio, nonché su aroma, gusto e aspetto, e tutti prevedono una fase di invecchiamento che può durare anni. Non sono in discussione il gusto e le notevoli proprietà nutrizionali di questi formaggi, ma anch’essi sono ricchi di tiramina, tirosina e taurina, del tutto controindicate quando bisogna ridurre il rischio di ipereccitabilità neurologica. Una ulteriore controindicazione dei formaggi è costituita dal loro notevole impegno epato-biliare e dal rischio di peggiorare la stitichezza, riportata fra gli effetti collaterali di numerosi farmaci entiepilettici.

Alimenti e bevande nervine - Oltre ai pesci più ricchi di glutammina, iodio e fosforo, e ai formaggi, vanno esclusi i funghi per l’impegno che provocano a carico del fegato e del rene, organi la cui funzione va tutelata nei pazienti epilettici. Per l’azione eccitatoria dell’acido citrico e della vitamina C, non bisognerà eccedere con frutti che ne sono particolarmente ricchi, soprattutto agrumi e kiwi. Quest’ultimo può essere irritativo anche per il suo notevole quantitativo di ferro. Fra i vegetali, oltre ai funghi, vanno segnalati il sedano, il cui contenuto in sedanina irrita le mucose digestive ed eccita il sistema nervoso, ma azione similare hanno anche solanacee come melanzana e peperoni. Per quanto riguarda bevande e preparazioni commerciali contenenti caffeina, va detto che non esistono dati certi circa la necessità di una sua drastica esclusione da parte dei pazienti epilettici. Più correttamente, bisognerebbe valutare l'entità del suo apporto giornaliero e il tipo di prodotto che la contiene. Come già segnalato nel capitolo dedicato alle interazioni neuropsichiche di singoli alimenti, una tazzina di caffè può contenere dagli 80 ai 100 mg di caffeina, mentre una tazza di tè verde o nero quantità relativamente inferiori (30-50 mg). Salvo casi particolari, si ritiene che l'assunzione di 200-300 mg di caffeina nelle 24 ore non sia un problema negli epilettici adulti. Discorso a parte meritano, invece, bevande come il guaranà o i tanti energy drink, di cui spesso si abusa, potendo raggiungere percentuali giornaliere pericolose di molecole psico-attive, con l'aggravante della presenza di coloranti, zucchero o edulcoranti artificiali.

Alcol - Una raccomandazione per tutti i pazienti che assumono farmaci antiepilettici è l'esclusione drastica dell'alcol, compreso quello che può essere presente in dolci e creme di vario tipo. L'attivazione epatica che lo trasforma in zuccheri ad opera dell'enzima alcol deidrogenasi velocizza anche la catabolizzazione dei farmaci, riducendone l'emivita plasmatica e, conseguentemente, la durata dell'effetto terapeutico.

Glutine - Molto controverso è l’eventuale ruolo del glutine come fattore favorente l’eccitabilità neuronale. Nella pratica clinica verifichiamo spesso una riduzione del numero di crisi comiziali o della intensità delle stesse riducendo o escludendo i farinacei glutinati. Nel dubbio, si cerca di utilizzare quelli alternativi come il camut o il farro, oppure si prova ad escludere per qualche giorno il glutine in modo drastico, verificando un eventuale miglioramento della sintomatologia, secondo un criterio ex iuvantibus. In realtà, non è chiaro se sia direttamente implicato il glutine o sostanze derivanti dalla lavorazione moderna delle farine che lo contengono.

E’ probabile il concomitare di diversi fattori infiammatori a carico della mucosa enterica, comprese le alterazioni del normale microbiota. Da qualche anno si sta studiando la zonulina, una aptoglobina presente all’interno delle cellule intestinali, unica proteina umana scoperta finora che ne modula la permeabilità. Essa è stata chiamata “regolatore delle giunzioni strette”, in quanto controlla la dimensione degli spazi tra le cellule e il passaggio di sostanze nutritive (figura 15). In caso di eccesso di zonulina (oggi dosabile su campioni di sangue o di feci), le giunzioni normalmente strette tra le cellule rimangono aperte, la parete intestinale si danneggia a causa della creazione di queste “leakiness” e si innesca una cascata infiammatoria ritenuta responsabile di patologie autoimmunitarie e neurodegenerative24. Non esiste una terapia in caso di zonulina alta, ma solo prescrizione di probiotici e prebiotici e la raccomandazione generica di una dieta senza glutine. L’attenzione al “cervello enterico” è costante nella pratica bionutrizionale e perciò il campo di intervento è ampio, soprattutto quando si può intervenire a livello preventivo.

 

Linee guida nutrizionali

Zuccheri - Nel paragrafo precedente si sono già espressi dubbi sull’ipotesi che basti togliere gli zuccheri dalla dieta per non fornire energia ai neuroni ipereccitabili. Se da un lato è più prudente garantire la stabilità glicemica nella scelta dei cibi e nella composizione dei pasti, dall’altro bisogna assolutamente evitare crisi ipoglicemiche in un paziente epilettico, ancor più se si tratta di un bambino. Infatti, in carenza di glucosio circolante, il rischio è molto serio in quanto si attivano meccanismi immediati di compenso, primo fra tutti una liberazione di adrenalina da parte della midollare del surrene. Questa evenienza è molto probabile in caso di esclusione degli zuccheri, ma è possibile anche per un loro eccesso. Infatti, in condizione di iperglicemia si può verificare una eccessiva liberazione di insulina (iperinsulinismo), il glucosio entra nelle cellule e si riduce nel sangue, configurando la classica ipoglicemia secondaria.

Nella composizione di tutti i pasti si terrà conto di quanto detto prima e si assocerà sempre una sufficiente quantità di lipidi, che notoriamente rallentano l’assorbimento intestinale degli zuccheri. Se necessario, si escluderanno del tutto solo gli zuccheri semplici (frutta, dolci, gelati, ecc.) e si proporranno quelli complessi, con o senza glutine a seconda del contesto clinico.

Lipidi - Non sarà mai eccessiva la raccomandazione di non ridurre i lipidi nell’alimentazione di un paziente epilettico, ancor più se si tratta di soggetti in fase di accrescimento. Lo scopo non è indurre uno stato di chetoacidosi, quanto quello di evitare gli sbalzi glicemici e, soprattutto, fornire nutrienti fondamentali per il tessuto nervoso. Nei paragrafi precedenti si è evidenziata l’importanza di migliorare il microambiente intestinale per garantire la sintesi endogena di acidi grassi a catena corta come il butirrato.

Salvo casi di intolleranze e allergie, è possibile sfruttare alcuni derivati del latte di cui si è già fatto cenno (latte, yogurt, ricotta, kefir), ricchi anche di acidi grassi a catena media come quello decanoico o caprilico. La presenza di quest’ultimo nell’olio di cocco pone il dilemma di un suo impiego terapeutico e nutrizionale. I dubbi riguardano i processi che vanno dal momento della raccolta a quello della spremitura. Alcuni fornitori conservano le noci di cocco in grandi cataste o le lasciano addirittura essiccare sui cigli delle strade. Le noci invecchiano diversi mesi prima di venire lavorate, il che ha conseguenze negative sulla qualità e la genuinità dell’olio. Nulla vieta, però, di utilizzare pezzetti di cocco nelle insalate o come merende, confidando nel fatto che in questo caso il frutto è visibile nella sua interezza e se ne può valutare lo stato di conservazione.

Indipendentemente dallo stato di salute, anzi per preservare quest’ultimo più a lungo possibile, in Bioterapia Nutrizionale si fa un largo impiego di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi. Primo fra tutti l’olio extravergine d’oliva, sia per condire a crudo o conservare gli alimenti, che per soffriggere e friggere. A seguire, quei prodotti ittici definiti genericamente come “grassi”, dal pesce azzurro in generale al salmone o alla preziosa anguilla, che molti dei nostri piccoli pazienti gradiscono in modo particolare. Pesci semigrassi sono il tonno e il pesce spada, da proporre saltuariamente per il rischio di presenza di mercurio.

Proteine - Della quantità di proteine e dei cibi che ne contengono percentuali significative si è già discusso nei paragrafi precedenti. Nei pazienti in fase di accrescimento, le proteine non dovranno essere ridotte oltre certi limiti, tenendo presente che la carne può essere sufficiente due o tre volte a settimana, ma sono possibili i legumi, le uova e alcuni derivati del latte. Da notare che anche quei prodotti ittici, citati prima per il loro contenuto lipidico, non sono privi di una consistente quota proteica. Secondo i principi della Bioterapia Nutrizionale, che si basa sui dati della fisiologia e della biochimica, il maggiore apporto proteico dovrà essere riservato al pasto di mezzogiorno. Di sera, dovranno prevalere i carboidrati, sia per la loro rapida digeribilità, che per evitare il rischio di disturbi del sonno dati dall’effetto generalmente eccitatorio degli alimenti proteici.

Vitamine - Non è condivisibile l’opinione che le vitamine fanno sempre bene e più se ne assumono meglio è, magari ricorrendo a diversi integratori, ognuno pubblicizzato come il più efficace. Uno stile alimentare, se completo, equilibrato e vario, è sufficiente per garantire tutto ciò che serve alla salute. Il ricorso ad integratori ha senso solo quando, per scelte e abitudini personali, la dieta è monotona e selettiva, comunque previo dosaggio emato-chimico che evidenzi l’oggettiva carenza di una o più vitamine. Una seconda indicazione riguarda pazienti affetti da disbiosi severa o malattie infiammatorie intestinali croniche che non permettono il consumo di molti cibi o limitano l’assorbimento dei nutrienti. Un caso particolare è quello della vitamina D, la cui sintesi endogena e le molteplici implicazioni organiche, la rendono più simile agli ormoni che non alle classiche vitamine. Come per molte altre patologie, anche nel caso delle sindromi epilettiche, è necessario chiedere il dosaggio ematico della vitamina D, prima di iniziare qualsiasi trattamento nutrizionale. Qualora essa risultasse al di sotto dei valori minimi rispetto al range di riferimento, il che è frequente, bisogna integrarla con uno dei tanti prodotti disponibili. Infatti, abbiamo verificato che la sola alimentazione e l’esposizione ai raggi solari richiederebbe tempi troppo lunghi per garantirne la sufficiente disponibilità organica.

Equilibrio elettrolitico - Si è già accennato al ruolo del calcio nella fisiopatologia dei fenomeni epilettogeni, oltre a quello di altri ioni come magnesio, potassio, cloro e sodio. Per quanto riguarda il calcio, l’alimentazione deve garantirne una quota costante ed equilibrata, attingendolo non tanto dai formaggi, di cui è stata segnalata la problematicità, quanto dal latte, dalla ricotta, dal burro o dallo yogurt, almeno nei casi in cui non coesistano intolleranze al lattosio o allergie. Si potranno proporre con frequenza semi oleosi come pinoli, mandorle o nocciole, contenenti anche magnesio e potassio in diverse proporzioni. Fra i legumi, i ceci sono particolarmente ricchi di calcio, oltre a verdure come il cavolfiore, il finocchio, i porri o i fiori di zucca. Una fonte preziosa di calcio e di altri elettroliti si libera dal guscio e dal corpo delle vongole durante la cottura; il liquido che ne deriva viene ampiamente sfruttato in molte preparazioni nutrizionali.

Particolarmente utilizzati sono gli alimenti ricchi di potassio, come zucchina, banana, fagiolini e gli agretti (barba di frate), o la mela cotta. Del potassio si sfrutterà l’azione miorilassante e decontratturante esercitata a livello della muscolatura periferica, in modo da ridurre lo stato di contrattura e facilitare il lavoro dei terapisti della riabilitazione nei bambini cerebrolesi con epilessia.

Un dato ricavato dall’anamnesi bionutrizionale e dallo studio accurato delle appetenze espresse dai pazienti epilettici è la tendenza a salare gli alimenti più di quanto richiesto dalla maggior parte dei soggetti sani. Questa tendenza viene da noi assecondata con il riscontro di oggettivi vantaggi clinici in termini di minore frequenza e intensità delle crisi convulsive. Una conferma di questo riscontro empirico viene dal fatto che abbiamo proposto con successo un moderato aumento del cloruro dei sodio anche nei pasti di bambini molto piccoli, che non sono in grado di esprimere le loro appetenze. In molti casi suggeriamo alla mamma di mettere un chicco di sale marino integrale in bocca al bambino quando percepiscono i primi segni di una crisi in arrivo, oppure di bagnare la lingua e la mucosa orale con acqua salata, anche in stato di incoscienza del piccolo paziente. Probabilmente, l’assorbimento sublinguale di ioni sodio e cloro, passando immediatamente nel circolo sanguigno generale, tendono a riequilibrare in parte il potenziale di membrana alterato, riducendo la sintomatologia o interrompendo una crisi comiziale in arrivo. Poiché il sale marino contiene già una quota moderata di iodio (utile anche per contrastare il rischio di ipotiroidismo di molti farmaci antiepilettici di prima generazione)25, è assolutamente vietato il sale iodato che potrebbe aumentare l’eccitabilità neuronale.

Nella gestione nutrizionale del paziente epilettico non bisogna polarizzare l’attenzione su un solo elettrolita, bensì avere l’accortezza di comporre la sequenza dei pasti con una rotazione di cibi che li contengano tutti, in modo da garantire un loro apporto equilibrato e costante.

 

Esempi di programmazione nutrizionale

Colazioni

Da bere - 200 cc circa di latte intero fresco Alta Qualità (in assenza di intolleranze al lattosio o di allergie alla caseina) con cacao o orzo, in alternativa camomilla calda o fredda al limone, oppure latte di mandorla. Si potrà anche proporre una tisana neuro-sedativa come quella di valeriana.

Salvo specifiche controindicazioni, la scelta del latte sarà quella più idonea a frenare l’ipereccitabilità neurologica. Il perfetto equilibrio fra calcio, lipidi, proteine e lattosio presenti in quest’alimento lo rendono idoneo in caso di ipereccitabilità neurologica. Non per niente la natura lo ha previsto nella fase neonatale, quando c’è l’esigenza della crescita senza, però, stimolare ulteriormente la spontanea vivacità del bambino piccolo. Qualora non fosse possibile proporlo come prima scelta, si ricorrerà alla camomilla con infusione di almeno quattro minuti o al latte di mandorla. In effetti, anche il latte di soia avrebbe un effetto neuro-sedativo, ma in Bioterapia Nutrizionale se ne fa un uso molto limitato a causa delle numerose problematiche secondarie all’impiego della soia e derivati. Una scelta alternativa a colazione, ma anche durante la giornata o prima di andare a dormire, potrebbe essere quella di una tisana di valeriana, facilmente reperibile in erboristeria. Azione sedativa avranno anche la tisana di alloro o quella di basilico.

Da mangiare - Pane (tostato per abbattere eventuale presenza di lievito in eccesso nella mollica) o fette biscottate con marmellata, o meglio con burro di ottima qualità e marmellata, o pane con olio e pizzico di sale, o con affettati crudi (prosciutto, bresaola, speck o lonza).

L’esigenza di fornire una quota significativa di lipidi per bilanciare l’elevato consumo energetico dovuto all’eccitabilità neurologica giustifica la scelta del burro o del prosciutto crudo (in assenza di reattività allergiche), oppure di altre proteine ad elevato potenziale bionutrizionale. Soluzioni ad eccessivo carico glicemico, come il pane, le fette biscottate o delle brioches con sola marmellata o miele potrebbero indurre una secondaria ipoglicemia a distanza di una o due ore dal pasto con conseguente attivazione dell’adrenalina e del cortisolo e aumento dei sintomi di eccitabilità. Un frutto ricco di potassio come la banana costituirà un’aggiunta ideale alla colazione e, nei casi più severi, si proporrà anche della frutta secca, in particolare le mandorle, ricche di potassio, calcio e magnesio.

 

Merende

Eventuali merende ripeteranno le scelte fatte a colazione, ovviamente alternando le varie soluzioni. Uno yogurt intero con frutta secca costituirà un’efficace soluzione alternativa. In fase acuta, per esempio in caso di tremore, tachicardia e agitazione, si ricorrerà a sorsi frequenti di latte o a due o tre cucchiai di yogurt (calcio), insieme a pezzetti di banana (potassio). Tale associazione si ripeterà anche a breve distanza di tempo, fino alla remissione della sintomatologia.

 

Possibili pranzi

1 - Patate al forno, fettina in pizzaiola, zucchina trifolata, e banana.

In questo esempio di pranzo prevarrà il potassio (utile, per esempio, quando la sintomatologia si esprime con crampi muscolari frequenti), presente nelle patate, nella zucchina e nella banana. Sarà importante una quota proteica di carne bianca con gli elettroliti del pomodoro.

 

2 - Pesce al forno con patate, cavolfiore in besciamelle, lattuga o valeriana o cappuccina con olio, sale, olive, frutta secca e pezzetti di arancia o di avocado.

Fra i prodotti ittici saranno meno problematici i pesci di scoglio o di fondale, più ricchi di silicio e calcio che di iodio e fosforo. Si potrà scegliere la sogliola, la pescatrice o il rombo associato al potassio delle patate. La quota di calcio sarà garantita dal cavolfiore (ricco anche in bromo neuro-sedativo), sfruttando la cottura in besciamelle, che associa latte e burro ai carboidrati della farina. La valeriana, o verdure crude sedative appartenenti alla famiglia delle “Composite”, come la classica lattuga romana o la cappuccina, costituiranno uno dei contorni più adatti. A seconda dei casi, si arricchirà l’insalata con arancia a pezzetti e/o avocado.

 

3 - Supplì di riso, scaloppina al limone, due indivie belghe crude condite o meglio in besciamelle e mango o banana.

I supplì di riso costituiranno una preparazione utile in caso di ipereccitabilità neurologica e saranno di solito molto graditi dai bambini. La scaloppina fornirà la quota maggiore di proteine, mentre l’indivia belga sarà utile per il suo contenuto di ferro, ma anche di calcio, se verrà proposta in besciamelle. Si potrà concludere il pasto con la banana, oppure con il mango. Quest’ultimo è ricco di acidi grassi vegetali.

 

Possibili cene

1 – Pasta (eventualmente senza glutine) e patate, 50-70 g di ricotta e cardi o belghe in besciamelle.

Correttamente preparata, la pasta e patate avrà una spiccata azione neuro-sedativa e d’induzione del sonno, sia per il triptofano (precursore della serotonina) presente nei farinacei in genere, sia per gli zuccheri complessi presenti nei carboidrati della pasta e di quelli a più rapido assorbimento forniti dall’amido delle patate. Al potassio di queste ultime si assocerà il calcio della ricotta (meglio di capra, per il contenuto di acido caprilico e per la maggiore tollerabilità del suo contenuto in lattosio) e delle verdure in besciamelle.

 

2 - Gnocchi di patate o polenta al pomodoro e basilico (con eventuale aggiunta di ricotta, meglio se di capra), zucchina trifolata o in pastella e 50 g di salmone affumicato con filo di olio e goccine di limone.

Per lo specifico effetto sedativo del basilico, questo sugo sarà adatto nei disturbi in oggetto in questo capitolo. Oltre a quello delle patate e della polenta, il potassio sarà presente nella zucchina, da preparare in pastella nei bambini e nei ragazzi epilettici che manifestino avversione verso altre modalità di cottura di questo vegetale. Si completerà la cena con la moderata quota proteica del salmone affumicato, di cui il paziente si gioverà per il suo contenuto in acidi grassi polinsaturi.

 

3 - Riso con burro e Parmigiano, un uovo strapazzato, valeriana o cappuccina condite e mela cotta, o caramellata o in pastella.

Cena di solito gradita anche dai bambini (da notare che la valeriana cruda è di solito accettata anche da soggetti che non amano molto le verdure) prevede l’associazione dell’amido e del potassio del riso al calcio del burro e del Parmigiano (da aggiungere in piccola quantità e comunque quello 36 mesi, senza lattosio). Alla moderata quantità proteica dell’uovo si sommerà l’azione sedativa e miorilassante del potassio della mela cotta, potendola anche proporre in pastella, modalità particolarmente gradita dai piccoli pazienti.

 

Riferimenti bibliografici

1-Dal sito www.bioterapianutrizionale.com

2-Cfr. Salute Europa, “Epilessia: una patologia che colpisce anche gli anziani”, in www.saluteeuropa.it, 2008.

3-Fradà G., Fradà G., Semeiotica medica nell’adulto e nell’anziano. Metodologia clinica di esplorazione morfofunzionale, Piccin Nuova Libraria, 2003, p. 769.

4-Guyton A.C., Trattato di fisiologia medica, tr.Curatolo A., D’Arcangelo P., Piccin Nuova Libraria, 1995, p. 756.

5-Ibidem.

6-Ibidem, p. 133.

7-Cfr. McNamara J. O., “Cellular and molecular basis of epilepsy”, in J.Neurosci., 1994, 14; 3413-3425.

8-Goodman, Gilman, Le basi farmacologiche della terapia, McGraw-Hill, 1997, p. 461.

9-Guyton A.C., op.cit.to, p.512.

10-Ibidem.

11-Ibidem, p. 513.

12-Arcari Morini D., D’Eugenio A., Aufiero F., Il potere farmacologico degli alimenti, Edizioni RED, Milano 2005, p. 39.

13-Fradà G., Fradà G., Op.cit.to, p. 38.

14-Guyton A.C., op.cit.to, p. 510.

15-Cfr. Evans J., “Low-down on low-fat milk”, in WDDTY, Vol. 18, n.1, April 2007.

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